Ancora una volta utilizziamo quella speciale “macchina del tempo” che è il libro scritto da Gio. Bono Ferrari, ovvero “L’eroica epoca della vela“, per immergerci in una lettura di cronache scritte e riflessioni del letterato, nei primi del novecento rispetto alla cittadina di Vado Ligure.
Per rispetto dell’autore e per godimento del lettore, non sarà modernizzato alcun vocabolo, seppur considerato oggi un errore di ortografia.
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Gli studiosi asseriscono che l’odierna Vado Ligure non sia altro che l’antica romana Vada Sabatia, ricordata da Strabone, Pomponio Mela, Plinio, Cicerone e segnata con precisione nella Tavola Pentingeriana e nell’itinerario di Antonino.
Terra d’incrocio di due strade romane, La Giulia Augusta e la Emilia, Vada Sabatia aveva il suo Castrum ed un’ottima rada per l’ancoraggio delle navi da guerra e di quelle allora chiamate “frumentarie”. E che fosse nobile e anche importante centro romano lo comprova il fatto di aver dato i natali a quell’Imperatore Elvio Pertinace che fu, in quei tempi di congiure di palazzo e di tradimenti pretoriani, uno degli uomini che più nobilmente e saggiamente governasse l’impero di Roma.
E di quei tempi gloriosi e lontani ce ne favella il suo strano museo, uno dei più interessanti di Liguria nel suo genere.
Lo fondò tanti anni fa un modesto ma coltissimo Arciprete di Vado don Cesare Queirolo che per la sua opera si meritò citazioni ed encomi persino dal Mommsen, dall’Issel, dal Pais e dal Baroncelli.
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A somiglianza di Sestri Ponente, di Cogoleto e d’altre terre ponentine, Vado Ligure è ormai soltanto paese industriale. Ma nei tempi andati fu terra di buoni marinai da cabotaggio dei bastimenti savonesi del secolo XIX.
Alcuni furono ufficiali e molti nostromi; ma i più navigarono quali marinai di “prima”.
Altri marinai invece lavorarono sulle barche coralline dei pescatori di Noli. Ed altri ancora presero le vie delle Americhe. (*vedasi nota in fondo al capitolo)
Il suo ancoraggio, difeso dai venti di libeccio, fu assai importante, specialmente dall’epoca napoleonica fin verso il 1870.
Nel 1866, epoca aurea della vela, approdarono a Vado Ligure e vi fecero operazioni di carico-scarico ben 155 bastimenti a vela con T. 3864, 640 marinai d’equipaggio, nonché 266 passeggeri.
Nel 1868 si ebbe un movimento d’arrivo di 302 bastimenti con T. 5672 e con 880 marinai d’equipaggio.
Poi, poco a poco, il suo movimento marinaro declinò, causa l’affermarsi della ferrovia litoranea.
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Una notizia assai interessante, ma che non possiamo dare per certa perché nei vecchi libri parrocchiali non abbiamo trovato il certificato di nascita, è quella che si riferisce ad un ragazzo che fattosi marinaio, sbarcò tanti anni fa a Montevideo, dedicandosi laggiù al cabotaggio con una barca da 30 T., chiamata “Il leone di Caprera”. Si chiamava Toccoli o Troccoli, che non è nome di Vado Ligure.
Un vecchio marinaio di Zinola, Francesco Pessano, ci disse che questo ragazzo poteva essere figlio d’uno di quei tanti piemontesi od emiliani che anticamente, all’epoca delle grandi fornaci da mattoni, erano scesi a Vado con le famiglie per lavorare alla fabbricazione dei laterizi e che poi, poco a poco, se ne andarono, quando dette industrie decadettero.
Il fatto si è che di quel ragazzo in paese più nulla si seppe. Ma nel 1881 egli, che doveva essere di fegato, accettò di trasportare con il suo piccolo veliero i messaggi e un sacco di terra uruguayana che le società italiane di Montevideo mandavano a Giuseppe Garibaldi.
Pare che il Presidente dell’Uruguay offrisse a Toccoli un forte aiuto finanziario, semprechè lui inalberasse sul suo barco la bandiera uruguayana.
Ma il lupo di mare respinse l’offerta dicendo che voleva arrivare a Caprera battendo bandiera italiana. Partì da Montevideo con due soli marinai, verso il finire del 1880.
Quando già tutti lo credevano perduto corpo e beni, egli arrivò di rilascio a Malaga con il piccolo veliero semi smantellato e senza più provviste. I suoi due compagni esauriti dagli stenti e da quel pò pò di contrastata navigazione, non ne vollero più sapere e l’abbandonarono.
Ma questo vero campione dei vecchi navigatori di Liguria non si scoraggiò punto. Rabberciò la barca alla meno peggio e poi, assolutamente da solo, puntò l’isola di Caprera, dove finalmente arrivò dopo aver subito altre traversie.
Fu ricevuto da Giuseppe Garibaldi che lo chiamò “messaggero” della nobile nazione uruguayana, per la quale l’Eroe dei due mondi aveva dato il sangue, nel lontano 1817.
E il sacco di terra che fu sbarcato a Caprera conteneva proprio una terra stata raccolta sullo antico campo della battaglia di Sant’Antonio, che Garibaldi aveva vinto in lotta contro le più numerose e agguerrite truppe del generale Manuel Oribe. Il Toccoli morì a Montevideo all’età di 88 anni.
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L’antica emigrazione della gente di Vado si può dividere in tre distinti periodi. Quella che iniziò verso il 1860 diede la preferenza agli scali del Sud-America, ossia a Montevideo, Buenos Ayres, Valparaiso, Callao. La seconda ondata si incanalò verso le terre della California. Alcuni Vadesi fecero delle grosse fortune. Un Giovanni Piuma emerse per opere di agricoltura e per ricchezze. Il terzo nucleo diede la preferenza alle terre del Brasile.
Di antichi Capitani dell’epoca della vela si ricordano: il Capitano Giacomo Oxilia, che navigò molti anni al comando del suo bastimento; il fratello, Cap. Giovanni Oxilia, che comandò sempre bastimenti di Savona; il Cap. Agostino Ciarlo, che aveva sposato la nipote del Cap. Oxilia; un Cap. Scotto; Cap. Tomaso Poggi, che comandò per molti anni i bastimenti degli armatori Pertusio di Savona, e il Cap. Griffo Gio.Batta, che comandò lo ship “Mombello” e i bastimenti dei Dani di Genova.
Un altro Capitano Ciarlo, che alcuni vogliono fosse nativo di Zinola, navigò molti anni quale primo ufficiale sul “Bianca Casanova”, un grande bastimento di Sampierdarena che era comandato, per i viaggi alla California da quella bella figura di lupo di mare che fu il Cap. Luigi Francesco Casanova (1847 – 1902).
Anni dopo Capitan Ciarlo emigrava a Buenos Ayres. In detta città fu uomo di fiducia dell’armatore Anselmo, del quale comandò alternativamente i vari bastimenti fluviali.
Anche il francese Michelet, che a Vado Ligure aveva impiantato l’industria dei mattoni refrattari, si era reso armatore di due capaci scune, necessarie per il trasporto dei suoi prodotti. Questi due velieri erano equipaggiati da marinai di Vado Ligure.
Nota
A Vado Ligure ci hanno assicurato – ma non l’abbiamo potuto seriamente controllare – che vari terrazzani del luogo, addetti un tempo alle fornaci di mattoni, espatriarono all’epoca della grande emigrazione assieme ad alcuni marinai rimasti senza imbarco. E che portati dal destino nell’interno del Brasile, prendessero poi stanza nei dintorni della città di Caxias, nel Rio Grande del Sud, dedicandosi all’agricoltura proprio in quelle colonie che erano state fondate da contadini delle regioni venete.
Di questi emigranti vadesi mai più nulla si seppe, se non che si erano sposati con donne brasiliane e che alcuni, più tardi, si erano andati a stabilire a Porto Alegre. E con questo potremmo senz’altro, chiudere la breve parentesi. Ma l’accenno alle colonie venete del Brasile ci fa sovvenire che nel capitolo “l’Opera dei pionieri italiani in America” abbiamo involontariamente omesso le belle pagine che il braccio veneto, l’agricoltore veneto, seppero scrivere nelle vergini terre del Rio Grande del Sud, ricordando ed elogiando soltanto quello che i tenaci e pazienti veneti seppero fare sull’immenso altopiano di S. Paulo.
I veneti, nel Rio Grande del Sud, principiarono ad affermarsi verso il 1875. E la corrente emigratoria andò sempre aumentando, fin quasi al 1895. Le buone terre, le ricche terre erano già state, è vero, accaparrate dai tedeschi, elemento ottimo ed assai intraprendente.
Ai veneti, arrivati ultimi, toccarono le terre vergini ma occupate dalla foresta ostile. Niente strade. Soltanto le “picadas”, che i veneti si aprono fra le liane a forza di scure e di “caypira”. V’è da lottare con tutto.
Con la selva che resiste a morire, con i rettili velenosi, con i subdoli scorpioni traditori e alle volte con i rari nativi che non comprendono quella febbre di distruzione e di attività.
Ma pur in mezzo a tutte le difficoltà i veneti vanno avanti e le boscaglie cedono il posto ai campi arati, ricchi di un humus portentoso
Quando si hanno i primi prodotti risulta che le città sono troppo lontane, per lo smercio. Non importa. Si costruiranno le piccole cittadine tutte venete, le colonie.E si seguita, non aiutati, né protetti da alcuno, a disboscare e ad arare. Ed a prolificare.
I veneti, da una minoranza, diventano una forza. A poco a poco sorgono tenute venete ai quattro punti cardinali dell’esteso stato del Rio Grande. Ovunque si parla veneto, che anche i brasiliani e anche gli antichi ex-schiavi negri comprendono alla perfezione.
Quando poi, dopo una lotta a denti stretti durata tutta una generazione, i veneti si contano, risultano più di centosettantamila, contro gli ottimi agricoltori tedeschi che non arrivano a diciassettemila!
Allora dal vecchio ceppo emigratorio si staccano i virgulti, che pur non abbandonando del tutto la tenuta, si dedicano ai commerci ed alle industrie. Le città di Antonio Prado, di Caxias e la capitale stessa, Porto Alegre, vengono infeudate dalle intraprendenze e dalle attività dei veneti. Non sappiamo come saranno oggi, quelle terre. Ma già venti anni fa le industrie venete, molte delle quali primarie, oltrepassavano il numero di mille. E il grande e il piccolo commercio era nelle mani dei nostri connazionali.
E v’erano già, fra i veneti, molti milionari. I nipoti e i pronipoti sono ormai ai posti di comando, avvocati, ingegneri, medici, agronomi, deputati al Parlamento. Ma le vecchie “estancias”, quelle che seppero le lotte e i patemi d’animo dei vecchi Nonni, portano sempre dei bei nomi veneziani.
E quando s’ attraversano quelle estese e belle campagne, così amiche e così amorosamente coltivate a tabacco, a granturco, a erba medica e a vigneti, si sente ancora, e per ogni dove, il dolcissimo “xè” dell’armoniosa parlata veneta. E le donne che salutano dalle “tranqueras” costeggiate dagli “espinillos” e dai gelsomini selvatici, hanno ancora le calde capigliature d’oro delle vecchie Nonne portate al Brasile, dai brigantini di Liguria, nel lontano 1875.
E nelle colonie e nelle cittadine del Rio Grande del Sud, a Garibaldi, a Nuova Trento, a Nuova Padova, a Nuova Milano, a Nuova Vicenza, a Colonia Anna, a Guaparé o Caxias stessa, le prime che ancor da lontano vi danno il benvenuto sono le minuscole ma belle chiesuole dall’architettura prettamente veneziana.
Ed i paesi e persino i più semplici agglomerati di case. le “aldeas”, hanno un carattere tutto italiano. Così dicasi per quelle regioni del Brasile ove si abbarbicarono i tenaci uomini della Lucchesia, che all’agricoltura ed alla economia brasiliana diedero menti di prim’ordine e migliaia e migliaia di braccia, ingentilendo anch’essi, con le loro costruzioni italiche, le terre della regione di San Paulo e del Rio Grande del Sud. Perché – è bene ripeterlo – se in quelle sterminate terre vi è una bellezza, un’opera d’arte, un pronao di marmo o una statua, questa è italiana.
Persino nei cimiteri sperduti e nascosti dai maestosi “ceibo” e dai superbi ciuffi di “camerox”, se trovate un angelo piangente o una statua della Pietà o quella del Redentore del mondo, esse portano tutte, la firma dei maestri marmorari di Massa Carrara.
Ospitali terre d’America. È vero. Ma che furono colonizzate e valorizzate da gente del nostro sangue. Che pur sapendo che forse non sarebbero mai più ritornate in Patria, ebbero sempre sulle labbra – e nella buona e nell’avversa fortuna – una sola grande parola: Italia, sempre Italia!