Storie marinare #8 – Albenga

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Quanto riportato in questo articolo è tratto dal libro L’epoca eroica della vela – capitani e bastimenti di Genova e della Riviera di ponente nel secolo XIX scritto da Gio. Bono Ferrari, 1941 Rapallo – Arti Grafiche Tigullio. Come per tante altre cittadine della costa savonese, questo prezioso libro riporta parte della storia di Albenga, focalizzandosi come da logica principalmente sul lato marittimo della città ingauna.

io sono la Patria dell’Ammiraglio GREGORIO D’ASTE
che a Lepanto comandò con perizia e onore le
vittoriose galee di Giovanni D’Austria.

È una delle più antiche e nobili città di Liguria.

Capitale dei popoli ingauni fu, prima ancora della possanza romana, porto di armamento di quegli audaci navigatori che detenevano e controllavano i traffici fra le nostre maggiori isole e le coste dell’Africa.
Città fedelissima ai cartaginesi, avversò con ogni mezzo il nascente potere di Roma. Vinta alfine, ma dopo lotte asprissime, ebbe dai lungimiranti romani tutti i più ampi diritti municipali.

Durante l’impero fu città fiorente e ricca di empori e di navi. Nel 641 Re Rotari, il longobardo, la saccheggiò a fondo. Incendiata e quasi distrutta dai pisani nell’agosto del 1165, si riebbe poco a poco fino ad assurgere a potenza tale da osare, come osò, di muovere guerra contro Genova stessa. Fu precisamente da quell’epoca che la nomea marinara di Albenga decadde causa il ritiro delle acque del mare.
Il suo vecchio porto, il rinomato “Vudino”, che era stato frequentato da tante navi, rimase quasi in secco e poi sparì sommerso dai detriti alluvionali. Come sparì la darsena e quei cantieri sui quali si erano costruiti infiniti legni mercantili. E la grande piana, che sapeva ancora di salsedine e di jodio diventò con i secoli una stupenda terra per l’orticoltura.

La bella città, feudale, guerriera ed umanista, fu devastata a sangue dalle truppe del Piccinino nel 1436. Durante il 1523 si ebbe le offese e le devastazioni delle bande francesi alle quali fecero seguito quelle amiche di Carlo V. Ma che pur essendo amiche devastarono anch’esse la bella piana e la guerriera città. Nel 1625 subì prima l’offesa e poi l’occupazione di Amedeo II, da cui Albenga si liberò con l’aiuto della squadra genovese.

Poi vi fu un altro cataclisma. Non provocato dagli uomini, ma dalla natura. E fu la terribile inondazione del 1744 che sommerse la pianura e la città intera fino al secondo piano delle case.
Proprio quando la città risorgeva e si faceva bella, sopravvenne la bufera rivoluzionaria e quella che fu anche chiamata la tormenta napoleonica. La città d’Albenga, le sue terre, le sue frazioni diventarono il campo di manovra di quegli eserciti che anelavano affacciarsi alle ricche terre di Liguria. A pensarci bene nessuna città rivierasca ebbe a soffrire, nei secoli andati, le tante e atroci vicende di guerra, di stragi, di saccheggi e di incendi come la nobile città di Albenga.

In questa città, che a ragione abbiamo chiamato guerriera ed umanista, ebbero i natali uomini illustri e di merito. I più antichi furono dei Santi: San Brunone, Vescovo di Segni e San Pietro, martire romano. Poscia un poeta latino: Caio P. Albinovano, onorato da Ovidio e da Marziale. Gio Batta D’Aste, frate agostiniano, che fu Vescovo di Tarragona; un Arrigo, che fu Patriarca di Gerusalemme; Gregorio D’Aste, illustre Somasco e Vescovo di Montepulciano; Marcello D’Aste, Cardinale ad Ancona e poscia Camerlengo nell’interregno di Alessandro VIII. L’illustre frate Maria Lamberto fu esploratore in Oriente e creò una grammatica turca.

Il Somasco Matteo Giorgi fu un illustre fisico ed Agostino Lengueglia un profondo storico. L’Ammiraglio Gregorio D’Aste comandò a Lepanto le galee di Giovanni D’Austria e l’Ammiraglio Alamanno Costa si era distinto nella spedizione contro Siracusa. Michele D’Aste fu colui che espugnò la fortezza di Buda-Pest, ricevendo per tal fatto patenti di nobiltà da Carlo V; Giacomo Selvaggio fu diplomatico e consigliere di Carlo II di Spagna. Filippo Lengueglia fu governatore della Gallia Cisalpina, della Lombardia e poi di Genova. Albenga diede altresì i natali al senatore Rolando Ricci. E se non fu terra di numerosi Capitani di mare nell’epoca eroica della vela, fu però la patria di ben cinque uomini di mare che furono tutti ammiragli: Ammiraglio Raffaele Borea-Ricci, che fu il primo Governatore di Tripoli Italiana; l’ammiraglio Alessandro D’Aste; l’ammiraglio Marcello Amero D’Aste; l’ammiraglio V.E. Moreno e l’ammiraglio Alberto Manfredi. Cinque bellissime figure di navigatori, che in gioventù avevano conosciuto anch’essi gli osamenti e le perizie della navigazione a vela.

L’inondazione del 1744

La terribile inondazione del 1744 se per il momento significò una vera rovina, fu poi motivo di vero benessere, perché l’apporto di terriccio venuto dalle convalli rese ricca di humus e ubertosa tutta la grande pianura posta sulla sinistra del Centa. Quella buona e nuova terra che si offriva alle intraprendenze degli uomini, distolse dalla marina quei pochi che ancora erano attaccati ai battelli e a quelle piccole barche da cabotaggio che gli antichi navigatori chiamavano “gondole”.

E così la piana ricca di braccia e di uomini tenaci, diventò quella che è ancora oggi: un vero giardino di ortaggi e di frutta. Gli asparagi di Albenga vanno ancora in Germania in Danimarca ed in Inghilterra. Ed gli ortaggi e le sue frutta sono conosciute su tutti i mercati. Un vecchio Cambiaso, al quale domandammo una volta se erano molti quelli di Albenga che ai tempi della emigrazione avessero preso le vie delle Americhe, ci disse: “ Dalle frazioni di Leca e Lusignano qualcuno andò al Plata e al Brasile. Ma l’America quei di Albenga la fecero qui, su questi campi benedetti da Dio. E molti dei contadini che abitavano nelle case degli orti sono degli autentici milionari”.

Quanto sopra spiega il perché quei di Albenga non si siano dedicati più al mare. Vi fu, si, qualche Capitano, come Cap. Lavatelli Ernesto fu Luigi, Cap. Monti, Cap. Antonio Rolandi Ricci, Cap. Lengueglia, Cap. Gandolfi e Cap. Bonifazio. Ma Albenga dell’epoca della vela lasciò ai suoi vicini , agli alassini, il compito di esportare i suoi ricercati e ricchi prodotti della terra. Il suo ultimo barco da cabotaggio, ci si disse in città, era la gondola di Cap. Bonifazio.

Un uomo tutto d’un pezzo che navigò fino alla vecchiaia. Sempre fedele al mare ed alla vela.
Nel periodo aureo della vela le autorità di Albenga fecero delle liberali agevolazioni ad un costruttore navale acciò fondasse sull’arenile un cantiere. La prima nave costruita fu un brigantino che ebbe il nome augurale di “Albenga”, varato il 18 aprile 1870 e che ci si assicura fosse di un armatore di Albenga del quale però non abbiamo potuto sapere il nome. Poi furono costruiti dei velieri per armatori ponentini e delle piccole feluche da cabotaggio.

Le famiglie emigrate

Delle varie famiglie emigrate al Plata si ricordano gli Enrico, che da ormai due generazioni sono argentini. Il capo stipite, emigrato in America verso il 1857, fu, nelle isole del Tigre, uno dei primi e più forti piantatori di pescheti razionali. A Buenos Ayres vi si erano stabiliti i vari Bonifazio, un Ricci, Costa, Canese, Vio Angelo, vari Cravino, Moirano Giacomo ed altri Moirano, vari Ascheri, i Morchio, Giacomo Ricci, Ameri, Rolando, Rattini, Dameri; un Ghiglione Matteo si era stabilito a Bahia Blanca e un Moirano a Pringlès.

Di coloro che emigrarono, ma non sono numerosi, al Chile, si ricordano i Rolando, Dameri, Frigoli ed i vari Elena. Ad Albenga si favella anche di antichi terrazzani delle fazioni di Lusignano e di Bastia che si recarono verso il 1840 in Tunisia, chiamativi dai Gaibisso, dagli Airoldo e dai Chiappe, casati di vecchi navigatori di Alassio che avevano terminato per stabilirsi quali mercanti nei vari approdi di Tunisia. Ove a quei tempi non eranvi che siciliani e genovesi. Si racconta che questi terrazzani chiamarono in prosieguo di tempo altri uomini del contado.

E che molti di costoro diventarono in Tunisia dei ricchi piantatori di olivi e viti. Notizie frammentarie, difficilmente controllabili dopo tanti anni. Ma del resto è risaputo da tutti che i primi a stabilirsi in Tunisia furono, per i commerci i genovesi, e per l’agricoltura i siciliani ed anche i calabresi. Il piccolo commercio costiero era già nel 1825, in mano di liguri di Sori, di Camogli, di Santa Margherita come i Costa detti di “Bona”, di Voltri come i Morchio, di Pegli, di Savona, di Alassio e di San Remo. La navigazione per quelle coste era sostenuta da scune e brigantini rivieraschi, in maggioranza camogliesi. Non era, è vero, navigazione troppo gioiosa, perché v’era sempre il pericolo d’incappare in qualche legno piratesco. Ma pur così, si viaggiava lo stesso, armati fino ai denti e sempre pronti a rischiar la pelle.

Dopo dell’occupazione dell’Algeria da parte della Francia, 1830, la Tunisia ricevette un nuovo afflusso di lavoratori italiani. I quali erano tanto ben visti dal Bey che già nel 1821 – dicesi nel 1821 – avevano potuto costruirsi a Tunisi la prima scuola italiana. E verso il 1838 avevano potuto crearsi il primo giornale italiano redatto da “patriotti” italiani emigrati ed esiliati politici.
Se il piccolo commercio era in mano di rivieraschi, il grande commercio, quello proprio degli emporii e dell’importazione, era si può dire esclusivamente genovese.

Vi erano, ed avevano branchie e succursali nell’interno, le forti case dei Vignale, Gnecco, Peluffo, Traverso, Cap. Ferrari, Raffo, Morchio, Parodi, per nominare soltanto le più accreditate.
Il sig. Fedriani, emigrato politico, era arrivato ad essere grande banchiere. Un suo amico e protetto, l’ingegnere italiano Ancardi fu colui che ideò e costruì la prima ferrovia tunisina fra La Goletta e Tunisi, linea che prese poi il nome di Tunisian Ralway Company. Anche Raffaele Rubattino si interessò in allora di quella regione che tutti consideravano come già italiana. Invece vi fu un giorno, cinquantasette anni fa, un vero tradimento. Perché la questione, anzi la soluzione del problema della Tunisia fu uno dei più subdoli e neri oltraggi che la Francia abbia perpetrato contro l’Italia.

I francesi

Noi non siamo capaci di scrivere e raccontare come si dovrebbe. Ma abbiamo sempre come vivo e come impregnato di lacrime il racconto che di quegli avvenimenti lontani ne faceva la veneranda Signora Angiola Ferrari, nata a Tunisi e morta a Camogli nel 1937, figlia di quel Capitano Ferrari che naufragato con il suo bastimento si era stabilito a Tunisi con casa da “ship-chandlers”. Detta Signora raccontava, sempre con le lacrime agli occhi, l’atroce disinganno subito dagli italiani di La Goletta quando il mattino del 12 maggio 1881 apparvero in lontananza, baciati dal primo sole, gli scafi d’acciaio e le sagome delle navi da guerra. Si gridava: “arrivano gli italiani. Finalmente sono qui!”.

E si bussava di porta in porta, svegliando i dormiglioni acciocché andassero a salutare i fratelli. E tutti si abbracciavano e si baciavano per le strade . Anche gli arabi, che ci volevano bene, esultavano con noi e facevano la “fantasia”.

Ma quando l’entusiasmo era al colmo, quando già le donne erano avviate alla marina con gli orcioli pieni di vino santo e con i fiori e i datteri da offrire ai nostri soldati, si vide che il tricolore che garriva sulle navi non era quello d’Italia. E si vide, e tutti credettero di avere le traveggole, che i soldati di sbarco indossavano i pantaloni rossi e le giubbette con i neri alamari di Francia…
Uno schianto. Pianti convulsi delle donne, mentre gli uomini frementi e con le mascelle serrate si affrettavano verso le case per chiudere le imposte e finestre.
E così gli zuavi di Francia attraversarono una città che non aveva una sola bandiera. E che sembrava morta…

Il grande negoziante e banchiere Frediani, mazziniano di antica data, moriva di crepacuore; molti siciliani, di quelli che avevano faticato tutta una vita per creare dal nulla i meravigliosi uliveti di Sfax, vendettero i loro campi per ritornare all’isola grande, da dove poi espatriarono verso le libere terre d’America. Una cappa di piombo era calata sulle migliaia e migliaia di italiani che di una regione barbara e incolta ne avevano saputo fare, in decenni e decenni di caparbio lavoro, un vero ed autentico giardino.

Perché contro i 686 francesi che abitavano allora in tutta la Tunisia v’erano già più di 30.000 dei nostri. I quali furono quelli che iniziarono la coltivazione delle viti, delle frutta e degli ortaggi. Quelli che fecero ricche e belle le città di Tunisi, Biserta, Susa, Ferryville, ecc. Coloro i quali costruirono le strade ed i ponti della prima ferrovia dell’italiano Rubattino. Quelli che dai boschi sprezzati ricavarono il sugheo e la gomma. Quelli che impiantarono le prime tonare e che coltivarono l’industria delle spugne. Quelli che additarono e strapparono dalle viscere della terra i minerali di piombo ed i ricchi fosfati. Quelli infine che in Tunisia fecero veramente tutto.

Ad oggi, 1938, queste cose, che pur sono di ieri, sembrano ormai lontane. Ma la ferita è sempre cocente e sempre tragicamente ingiusta. Verrà perciò un giorno, ne siamo certissimi, in cui il famoso trattato imposto dal generale Béart al Bey Mohammed El Saddok sarà stracciato. E su quelle terre fecondate e valorizzate dagli italiani, dai soli italiani, sventoleranno i colori della Patria.

Novembre 2, 2019
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